
DAGUERRÉOTYPES
● DAGUERRÉOTYPES ●
un film di Agnès Varda
con i commercianti della rue Daguerre
sceneggiatura: Agnès Varda ● fotografia: Nurith Aviv, William Lubtschansky
montaggio: Gordon Swire, Andrée Choty
produzione: Ciné Tamaris
distribuzione: Cineteca di Bologna
Francia, 1976 ● 80 minuti
v.o. francese con sottotitoli in italiano

Un omaggio per una voce unica nel coro nouvelle vague. Varda per oltre settant’anni ha girato film con lo stesso contagioso piacere, senza distinzioni tra generi, formati, durate, fiction o verité. Un cinema in prima persona, singolare, fatto di di luoghi, di strade, di attese, lo sguardo che si fa all’occorrenza femminista e sociale, senza perdere in libertà poetica.
Agnès, insieme alla figlia Rosalie, esce in strada e filma. La strada è Rue Daguerre, nel 14° arrondissement, dove ha abitato per cinquant’anni. La sua cinepresa interroga le vite di bottega, i negozianti della via, e intanto ascolta storie, che sono talora storie di migrazioni, di gente che ha cercato e trovato un posto nel mondo.
«Daguerréotypes è un cinema di quartiere, un cinema di vicinato, girato nella mia via, presso coloro che lasciano aperta la propria porta, i commercianti. Non si tratta di un’inchiesta, né di uno studio sistematico degli abitanti. È un documento modesto e locale su alcuni piccoli commercianti, uno sguardo attento sulla maggioranza silenziosa, un album di quartiere, un archivio per gli archeosociologi dell’anno 2975. È la mia “opéra-Daguerre”.» (Agnès Varda)
«Agnès, insieme alla figlia Rosalie, esce in strada e filma. La strada è Rue Daguerre, nel 14° arrondissement, dove ha abitato per cinquant’anni. La sua cinepresa interroga le vite di bottega, i negozianti della via, cerca e trova la concreta poesia delle baguettes croccanti, delle bistecche fresche di taglio, delle stoffe cucite a mano. Intanto ascolta storie, che sono talora storie di migrazioni, di gente che ha cercato e trovato un posto nel mondo. Sì, se ci aspettiamo il fascino di una Parigi che non c’è più, l’attesa è ripagata. Senza dimenticare che questo è “uno dei grandi documentari moderni, che ha fondato un nuovo genere, l’antropologia dell’affetto.”» (Richard Brody, The New Yorker)