I racconti di Canterbury

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I racconti di Canterbury

un film di Pier Paolo Pasolini
con Pier Paolo Pasolini, Ninetto Davoli, Laura Betti, Franco Citti
sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini ● fotografia: Tonino delli Colli
montaggio: Nino Baragli ● scenografia: Dante Ferretti
produzione: Alberto Grimaldi
distribuzione: Cineteca di Bologna
Italia, 1972 ● 110 minuti

v.o. in italiano

1972, Festival di Berlino: Orso d’Oro

Dopo “il Decameron”, Pasolini prosegue la sua gustosa ricostruzione di un passato libero dall’ombra dell’omologazione e pulsante di una “disperata vitalità”. Un’opera in bilico tra farsa e poesia, tra beffa e magniloquenza dove la libertà sessuale è ancora una forma di resistenza al potere.

Secondo film della Trilogia della vita in cui Pasolini ridusse per lo schermo le famose raccolte di novelle del Trecento, andando in cerca di un mondo popolare in via d’estinzione e dell’umorismo che ne sprigiona. Questa volta è di scena l’Inghilterra di Geoffrey Chaucer (un borghese che scrive del popolo, ma con una coscienza rispetto a Boccaccio già turbata, scrisse Pasolini) con i suoi pellegrini sulla via dell’abbazia di Canterbury per onorare la tomba di san Thomas Beckett. I racconti che narrano per ingannare la noia del viaggio sono ora drammatici, ora farseschi, ora teneri, ora grossolani.

«I rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche proprio di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile. (…) Ho raccontato queste storie solamente per il piacere di raccontarle. Il piacere di raccontare storie implica un giocare con ciò che si narra, e questo giocare implica una certa libertà riguardo alla materia. Questa libertà di fronte alla materia richiede che la ricostruzione di Chaucer sia di fantasia, e che non debba essere usata come pretesto per la ricostruzione di un periodo storico. La storia in questo film è strettamente di fantasia. Perciò devo dimenticare Chaucer per poter fare il film come un mio gioco di fantasia, un mio gioco personale come autore»

«I racconti di Canterbury, nella assoluta simbiosi che il film vive con la complessiva poetica del suo autore, accogliendo nelle sue immagini una certa furia iconoclasta, una attenzione che diventa metro di giudizio sul presente della lingua come forma espressiva elementare, ma precisa di una certa classe sociale, diventa anche studio antropologico su quell’umanità che più lo interessava e lo stimolava a trovare storie che ne mettessero in scena l’arguzia infelice e la semplicità dell’agire. Tutto ciò per Pasolini era sintomo di verità depurata da ogni cultura di non appartenenza a partire dalla sessualità quasi istintiva, anch’essa semplice e priva di qualsiasi apparenza.» (Tonino De Pace, Sentieri Selvaggi)