Morte a Venezia

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Morte a Venezia

un film di Luchino Visconti
con Dirk Bogarde, Björn Andrésen, Romolo Valli, Mark Burns, Carole André,
Nora Ricci, Marisa Berenson, Silvana Mangano ● soggetto: dal romanzo di Thomas Mann
sceneggiatura: Nicola Badalucco e Luchino Visconti
fotografia: Pasquale De Santis ● montaggio: Ruggero Mastroianni
costumi: Piero Tosi ● musiche: Gustav Mahler
produzione: Warner Bros
Italia, Francia, Stati Uniti, 1971 ● 130 minuti
edizione restaurata presentata alla 75° Mostra del Cinema
da Cineteca di Bologna e Istituto Luce-Cinecittà, con Warner Bros e The Criterion Collection

v.o. in italiano
1971, David di Donatello a Luchino Visconti miglior regista ● Globo d’oro Miglior film
Festival di Cannes, Premio del 25º Anniversario a Luchino Visconti
1972, Nastri d’argento: Regista del miglior film, miglior attrice non protagonista (S. Mangano)
Miglior fotografia, Migliori costumi

Nel suo 50° anniversario, torna in sala al Beltrade un capolavoro indimenticabile del cinema italiano, il film “più proustiano” di Visconti, parte della “trilogia tedesca” che comprende anche La caduta degli dei e Ludwig. Nel vero Hotel des Bains di Venezia si svolge la storia che Visconti utilizzò (in parte tradendola) per raccontare la crisi e la decadenza, anche fisica, della borghesia, con la sua illusione di poter rimuovere le pulsioni istintive.

Venezia, 1911, il famoso compositore Gustav von Aschenbach giunge al Lido per un periodo di risposo in seguito a una crisi cardiaca. Qui incrocia la bellezza efebica di un giovanissimo polacco, Tadzio, che soggiorna nello stesso hotel di Gustav assieme alla famiglia. Il musicista se ne infatua immediatamente. A Venezia, intanto, è scoppiata un’epidemia di colera. Il film si ispira al romanzo di Mann mescolandovi spunti dalla biografia di Gustav Mahler.

«Ciascun’epoca ha le sue ambiguità e le sue tortuosità. La chiarezza è sempre del poi e fra qualche anno saranno estremamente chiari anche questi anni che ora appaiono così confusi.» (Luchino Visconti)

«Morte a Venezia rimane, inattaccabile, una delle rappresentazioni più dolenti sulla caducità dell’uomo, un racconto proteso a quell’attimo scintillante in cui il tempo rivela la sua natura non umana, la sua trascendenza che sovrasta ogni vita, quella di von Aschenbach e quella di chi guarda, ponendo lo spettatore di fronte alla ferocia della difficile parzialità che chiamiamo esistenza. Anche per questo il secondo capitolo della Trilogia tedesca (…) è il più semplice, lineare e assoluto: nel viaggio a ritroso che il regista compie, dall’ascesa del nazismo alla nascita dell’Impero di Bismarck, il trapasso tra i due secoli assume una tonalità più esistenziale (e più proustiana e bergsoniana) concentrandosi sulla memoria come ricerca della permanenza e sul tempo come strumento insuperabile della dissoluzione. Al di là di ogni ulteriore riflessione, Visconti prende il romanzo breve di Thomas Mann del 1911 e ne realizza una versione più granitica nella concezione e più sentimentale nella texture (…). Una delle più suggestive messe in scena cinematografiche del limite umano di fronte alla triste abilità di comprenderlo. In questo senso Morte a Venezia è un’opera d’arte chiusa e perfetta, una rappresentazione folgorante, assoluta, di un sentire universale, più vicina nel suo esito all’effetto della musica (il che rende ancor più inappuntabile la scelta dell’Adagietto della Quinta Sinfonia di Gustav Mahler) o all’evocazione misteriosa di un dipinto (per esempio il simbolismo di de Chirico, visto che L’enigma dell’Oracolo, 1910, è chiaramente citato da Visconti). » (Elisa Battistini, Quinlan.it)