PARTHENOPE
un film di Paolo Sorrentino
con Celeste Dalla Porta, Stefania Sandrelli, Gary Oldman e Silvio Orlando
sceneggiatura: Paolo Sorrentino ● fotografia: Daria D’Antonio
montaggio: Cristiano Travaglioli ● musiche: Lele Marchitelli
produzione: The Apartment Pictures, Saint Laurent, Numero 10 e Pathé
distribuzione: PiperFilm
Italia, Francia, 2024 ● 136 minuti
v.o. italiano e napoletano e inglese con sottotitoli in italiano (nelle parti in inglese)
2024 Festival di Cannes: Concorso
Presentata in concorso al festival di Cannes 2024, l’ultima opera di Paolo Sorrentino è un ritorno al lirismo che ha contraddistinto i momenti più poetici della sua produzione. Un’ode alla sua città natale, Napoli, ma anche alla giovinezza, a tutte le stagioni della vita e alla sua caducità.
Il lungo viaggio della vita di Parthenope, lei che si chiama come la sua città, da quando nasce nel 1950 fino a oggi. Questa è un’epica del femminile senza eroismi, ma abitata dalla passione inesorabile per l’esistenza: la spensieratezza giovane e il suo inevitabile sfiorire, la bellezza e la caducità della vecchiaia, gli amori veri e quelli inutili che ti condannano al dolore, la fine delle cose ma anche i nuovi inizi. Tutt’intorno, Napoli e la sua gente, gualcita e vitale, che ride, incanta e urla, mentre se ne va a braccetto con lo scorrere del tempo.
«Parthenope è una donna belissima, libera, spontanea, priva di pregiudizi. Il riflesso della città in cui sono cresciuto. (…) Io e Parthenope condividiamo la curiosità verso le altre persone, questo spirito antropologico, e abbiamo molto in comune. Nonostante i traumi dell’esistenza, lei non perde il suo interesse verso gli altri. Nasce in una condizione perfetta per essere libera e lotta per questo suo diritto.» (Paolo Sorrentino)
«Il regista e sceneggiatore ritrova l’astrazione e la seduzione ammaliante della “Grande bellezza”, con tanto di esergo nuovamente affidato a Celine («Certo che è enorme la vita. Ti ci perdi dappertutto»), (…) oltre al contributo nuovamente decisivo di Daria D’Antonio alla fotografia (proprio come in “È stata la mano di Dio”), per un film continuamente sospeso tra la tensione al sublime e la caduta nel baratro, popolato di fantasmi malinconici.» (Valerio Sammarco, Cinematografo)