Sirât

/ / Prossimamente

Sirât

un film di Óliver Laxe
con Sergi López, Bruno Núñez, Jade Oukid, Richard Bellamy, Stefania Gadda
sceneggiatura: Óliver Laxe, Santiago Fillol ● fotografia: Mauro Herce
montaggio:  ● musiche: Kangding Ray
produzione: 4 A 4 Productions, El Deseo, Filmes da Ermida
distribuzione: MUBI
Francia, Spagna, 2025 ● 115 minuti

v.o. spagnolo, inglese, francese, arabo con sottotitoli in italiano

2025 Festival di Cannes: Premio della Giuria

Un viaggio ipnotico e sacro tra deserto e rave. Con dialoghi essenziali, immagini minimaliste e riprese in 16 mm, Sirāt di Óliver Laxe. opera audace e sensoriale che ha conquistato il Premio della Giuria al Festival di Cannes 2025 è un ritratto radicale dell’umanità al margine, tra comunità emarginate, pulsazioni musicali e paesaggi aridi che diventano specchio dell’anima.

giovedì 1 Gennaio
06:00

Luis con il giovane figlio Esteban si aggira in un rave party mostrando una foto della figlia Mar della quale ha perso da alcuni mesi le tracce e che vorrebbe trovare. Nessuno la conosce ma, nel corso della ricerca, l’uomo fa delle conoscenze che, dopo la chiusura della festa da parte dei militari, lo indirizzano verso un altro rave. Il viaggio non sarà dei più facili e non solo per le asperità del terreno.

« » ()

« Insomma: una specie di Cavallo di Torino di Béla Tarr rifatto per il prime time pensando (lo hanno detto in molti) al Salario della paura di Friedkin. Il lato migliore di Sirât è, comunque sia, quello di essere un film umile, le cui aperture al sublime paesaggistico o sonoro (la techno usata immersivamente), complicando e frastagliando la linea tracciata dal film senza mai spezzarla, sono regolarmente funzionali alla cornice di genere, quella di un western che degrada pian piano nell’horror. Cornice che – e qui sta il bello del film – Laxe ha la saggezza di prendere sul serio anziché trattarla come un pretesto indifferente: se all’interno delle singole scene i personaggi vengono sbozzati in modo abbastanza grezzo, scena dopo scena le relazioni tra i personaggi (sulla cui solidità il film non arretra, come non arretra rispetto alla tensione) assumono sempre più nitidamente la fisionomia del fantasma di un patto sociale (a questo servono i generi, da che cinema è cinema), che nel finale acquista le sembianze di una sottoproletarizzazione universale finalmente autocosciente.» (Marco Grosoli, gli spietati)