C’ERA UNA VOLTA IN BHUTAN
un film di Pawo Choyning Dorji
con Tandin Wangchuk, Kelsang Choejey, Deki Lhamo
sceneggiatura: Pawo Choyning Dorji ● fotografia: Jigme Tenzing
montaggio: Hsiao-Yun Ku ● musiche: Frédéric Alvarez
produzione: Dangphu Dingphu
distribuzione: Officine UBU
Bhutan, Taiwan, Francia, Stati Uniti, 2023 ● 107 minuti
2023 Festa del cinema di Roma: premio speciale della giuria
cinema revolution 3,5€ grazie al contributo
straordinario del ministero della cultura
Regno del Bhutan, 2006. La modernizzazione è finalmente arrivata. Il Bhutan diventa l’ultimo paese al mondo a connettersi a Internet e alla televisione, e ora è la volta del cambiamento più grande di tutti: il passaggio dalla monarchia alla democrazia. Per insegnare alla gente a votare, le autorità organizzano una finta elezione, ma gli abitanti del posto non sembrano convinti. In viaggio nelle zone rurali del Bhutan, dove la religione è più popolare della politica, il supervisore elettorale scopre che un anziano Lama sta organizzando una misteriosa cerimonia per il giorno delle elezioni.
«In Lunana il tema centrale era la “casa”, ma in “C’era una volta in Bhutan” è l’”innocenza”. L’innocenza è un valore e un tema così importante dell’essere bhutanesi, e purtroppo in questo cambiamento verso un paese più moderno e più istruito, questo bellissimo valore si sta perdendo, perché sembra che la mente moderna non riesca a distinguere tra “innocenza” e “ignoranza”. Con C’era una volta in Bhutan, il pubblico vedrà molti dei personaggi rurali della storia guidati
e motivati dall’innocenza, qualcosa che viene evidenziato ancor di più quando confrontiamo la storia tra rurale e urbano.» (Pawo Choyning Dorji)
«Nell’elastico tra modernizzazione e ruralità, tra consumismo armato e pacifismo naturalista, Choyning Dorji si diverte, tramite badilate di sarcasmo e puntate umoristiche, a rovesciare il nostro pacchetto di valori politici, morali, economici. Gioca sul paradosso, insiste sul capovolgimento di sguardi, ammicca al no sense grottesco, cerca la commedia, giunge al sarcasmo per mostrare come l’Occidente armato non modernizza, ma ammala l’Oriente. Tra antropologia di un popolo in bilico tra due epoche e spassosa, satira antimilitare (dunque antiamericana), di soppiatto, il regista spiazza e cerca l’azzardo: ci sussurra che il denaro non ha valore in sé, che la democrazia americana forse non val bene una monarchia ultra centenaria, che la tv né è il braccio armato e non è progresso, perfino che gli States in fondo non sono democrazia, ma “il paese con più armi che persone”. Insomma, in Bhutan non tutti sono democratici, ma sanno perfettamente che se vis pacem non para bellum, sed pacem.» (Davide Maria Zazzini, cinematografo.it)